Three Extremes: la recensione dell’horror antologico

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Three Extremes

Composto da tre mediometraggi in apparenza slegati tra loro, Three Extremes raduna il meglio del cinema orientale d’inizio anni Duemila. Da Hong Kong, Sud Corea e Giappone, tre sguardi d’autore sugli orrori contemporanei.

L’horror antologico asiatico che spiazza e intimidisce.

Three Extremes (2004), per la regia di Fruit Chan, Park Chan-wook e Takashi Miike, è un film antologico in tre episodi che declinano l’horror nelle sue forme più raccapriccianti, il cui fil rouge è l’estetizzazione di incubi collettivi che non valgono solo per gli abitanti di Hong Kong, del Giappone e della Sud Corea. Se già i nomi coinvolti in cabina di regia suscitano un misto di timore e fascinazione, il risultato finale mantiene la promessa di elevati livelli di pura, meravigliosa follia.

Seguito spirituale di Three (2002), altra notevole antologia improntata al macabro, Three Extremes cavalcò l’onda d’interesse occidentale per l’horror asiatico nei primi anni Duemila, arrivando a presenziare addirittura alla 61ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Dumplings (diretto da Fruit Chan)

Three Extremes Dumplings

La signora Li, ex stella del cinema di Hong Kong, sta invecchiando. Il marito, facoltoso uomo d’affari, la tradisce ripetutamente con amanti più giovani. La donna si convince di poter riconquistare giovinezza e consorte grazie a una dieta di ravioli speciali preparati da Zia Mei. Inutile dire che l’ingrediente segreto ha a che fare con il cannibalismo, e che non mancheranno gli effetti collaterali.

Noto in particolar modo agli spettatori veneziani per aver raccontato il subbuglio e le incertezze della Hong Kong post-handover in capolavori come Made in Hong Kong e Public Toilet, Fruit Chan condensa in quaranta minuti una critica alla società delle apparenze e alle politiche cinesi sulla natalità. Le mostruosità che siamo in grado di perpetrare in nome dell’apparenza prendono vita con uno stile scabroso e insieme elegantissimo. La palette cromatica opaca di Christopher Doyle (già direttore della fotografia di Wong Kar-wai), la freddezza degli interni, l’insistenza sui volti in primo piano, il disturbante impiego del sound design e la sobrietà dei dialoghi potenziano gli agghiaccianti risvolti di una storia che non ha bisogno di indugiare sul raccapriccio grafico.

Di Dumplings esiste pure una versione estesa da 90 minuti, indipendente dall’antologia, che approfondisce i rapporti tra i personaggi.

Cut (diretto da Park Chan-wook)

Three Extremes Cut

La seconda pillola inizia sul set di un horror vampirico. Ryu Ji-hofilmmaker sudcoreano sposato con una talentuosissima pianista, viene rapito da una sadica comparsa che lo sottopone a un ricatto: se il regista non uccide una bambina presente nella sua stanza-prigione, il torturatore gli farà a pezzi la moglie legata al pianoforte. La colpa di Ryu è quella di essere troppo bello, ricco e altruista.

Il contributo registico di Park Chan-wook prende il tema della vendetta al centro di Oldboy e lo cala in un contesto strettamente cinematografico. Il titolo del mediometraggio, Cut, si riferisce al termine anglofono usato per interrompere le riprese. Il film di vampiri realizzato dal protagonista e il continuo rimbalzo tonale tra horror e commedia nera sembrano anticipare le svolte stilistiche di Thirst (lungometraggio che Park realizzerà pochi anni dopo). Il rapporto tra regista e comparsa finisce per incarnare le rabbie represse della lotta di classe sudcoreana.

Il ritmo indiavolato, la tensione palpabile, i movimenti di macchina articolati (e “abbelliti” dalla CGI) fanno passare in secondo piano il fatto che l’intero mediometraggio sia ambientato in un’unica, barocca stanza-set. E poi c’è il gore, improvviso e bellissimo a vedersi, arte macabra scintillante come un opale. Tuttavia il vero orrore è quello nascosto all’ombra del perverso divertimento, quando all’ultima dissolvenza in nero si rabbrividisce pensando alla ciclicità di violenza e invidia.

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Box (diretto da Takashi Miike)

Three Extremes box

La giovane scrittrice Kyoko ha avuto un’infanzia infelice che si ripresenta puntualmente sotto forma di incubi angoscianti. Kyoko aveva una gemella, Shoko, morta accidentalmente quando entrambe vivevano nel circo di Higata, proprietario della struttura nonché loro tutore. L’improvviso ritorno di Higata nella vita di Kyoko costringerà la protagonista a misurarsi una volta per tutte con il senso di colpa. L’epilogo paleserà una volta di più che l’apparenza inganna.

Per affrontare al meglio Box, bisogna dimenticarsi del Takashi Miike di Ichi the Killer. Il regista giapponese abbandona lo stile truculento che lo contraddistingue e predilige una forma di horror più introspettivo, legato a una climax di tensione a fuoco lento. La struttura narrativa di Box è quella di un giallo rarefatto, lynchiano nella scelta di chiaroscuri lividi, luci sature, lunghi silenzi e composizioni dell’immagine millimetriche. Miike realizza a mani basse il mediometraggio più enigmatico del trio, un labirinto di sogni che confluiscono nel reale, ammantato di suggestioni shintoiste. E proprio per questo il meno accessibile.

Three Extremes: conclusioni

Three Extremes va annoverato tra gli horror più conturbanti (e sottovalutati) mai prodotti in Asia. Anche guardando ai curricula complessivi dei singoli registi, il film non sfigura di fronte alle loro opere migliori, per pedigree, competenza tecnica e folle visionarietà.

Poi sarà vero che i discorsi politici alla base non sono particolarmente innovativi, ma Three Extremes rimane un eccezionale viaggio distorto nelle inquietudini moderne, sconsigliato ai deboli di cuore e alle menti chiuse che vedono nell’horror un semplice giretto a Disneyland.

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