ACAB – La serie, la recensione: un crudo ritratto italiano

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Adriano Giannini, Pierluigi Gigante, Valentina Bellè e Marco Giallini sono i protagonisti di ACAB - La serie.

Passaggio di testimone da Stefano Sollima a Michele Alhaique (Bang Bang Baby), cambio di formato (dal cinema allo streaming di Netflix) ma, il risultato, rimane invariato. ACAB – La serie è un crudo ritratto dell’Italia coeva, che abbiamo visto e recensito.

Sono trascorsi ben tredici anni dall’uscita nelle sale italiane del controverso quanto innovativo ACAB – All Cops Are Bastards, adattamento del libro di Carlo Bonini e opera prima di Stefano Sollima, regista nostrano che si è fatto le ossa direttamente sui set trovando il beneplacito anche oltreoceano (come nel caso di Soldado, sequel di Sicario di Denis Villeneuve).

Se l’originale ACAB ha formato, qualche mese dopo, un dittico apocrifo con Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, ACAB – La serie eredita sì l’eredità di Sollima, ma vira verso una nuova identità propria.

Volti vecchi e nuovi

Marco Giallini interpreta Ivano "Mazinga" Valenti in ACAB - La serie

A partire dal cast completamente rinnovato, eccezione per il magistrale Marco Giallini che torna negli scomodi panni del sovrintendente Ivano “Mazinga” Valenti, in cui spiccano Adriano Giannini, Valentina Bellè e Pierluigi Gigante, rispettivamente nei ruoli dell’ispettore Michele Nobili e degli agenti Marta Sarri e Salvatore Lovato, ACAB – La serie è un crudo ritratto dei tempi italiani attuali. Così come fece Sollima, gli sceneggiatori Bonini, Dondi, Gravino, Pellegrini e Giordano non optano per un contesto fittizio, semmai fanno il contrario. Se nel lungometraggio, ambientato nel 2007, vi erano gli echi e gli spettri del G8 di Genova del 2001 con cui dover convivere e fare i conti, qui si è spettatori dell’Italia post pandemica, in cui si fa la guerriglia in Piemonte per l’alta velocità, i tifosi inglesi devastano la Capitale per una partita di calcio e il razzismo si muove serpentino nella società.

Ed è proprio in Val di Susa che prende le mosse la serie, in uno dei servizi di ordine pubblico durante il quale, la squadra di Mazinga, perde il comando del superiore Pietro Fura (interpretato da Fabrizio Nardi), ferito alla schiena da una bomba carta. È l’inizio della mattanza, dell’occhio per occhio che va ben al di là dei limiti che divisa e distintivo impongono. Qui, in questo serrato incipit, si assiste a ciò che non si dovrebbe mai vedere, ossia una violenza inaudita e bestiale esercitata da entrambe le parti coinvolte.

Crudo realismo per un prodotto mai così attuale

Valentina Bellè interpreta Marta Sarri in ACAB - La serie

In questo, la creatura di Alhaique non si discosta per nulla da quella di Sollima, coadiuvando un certo iperrealismo e trasmutando in immagini brutalità e perdita di controllo dei reparti scelti della polizia, di quella celere che non lesina a utilizzare le maniere forti e che “non arretra”, parafrasando le parole pronunciate da Mazinga, a rischio di pagarne le conseguenze.

Tuttavia, non si tratta di una glorificazione ma, al contrario, ACAB – La serie sospende il giudizio sull’ingiusto e sul giusto, portando in scena quel flebile confine tra bene e male sfumato, non bianco o nero bensì grigio, una zona di mezzo in cui ruoli e princìpi si confondono, dando vita a una amalgama in cui regnano caos e perdita delle coordinate tanto professionali quanto esistenziali. Non c’è gratuità, dunque, né idolatria o ideologia nei sei episodi che compongono questa serie e che si lascia guardare tutta d’un fiato non solo per l’ottimo lavoro attoriale ma – soprattutto – per l’eccezionale scrittura della sceneggiatura che prende vita grazie a un impianto scenotecnico di prima qualità.

Registicamente ineccepibile e abbandonando i colori desaturati del film di Sollima, la fotografia di Vittorio Omodei Zorini si sposta su quelli più scuri, similari al noir, quasi a voler sottolineare la cupezza di un Paese che deve fare i conti con la violenza, così come gli stessi protagonisti devono fare i conti con se stessi, dilaniati e consumati non solo dal lavoro, al quale non sanno rinunciare, ma anche da solitudine, pesi psicologici e drammi intimi e famigliari perché sì, al pari di Sollima, Alhaique non indugia a mostrare il privato poiché, sotto la divisa e i gesti di extrema ratio, vi sono essere umani capaci di sbagliare, fallire e (forse) redimersi.

Un finale aperto per una eventuale seconda stagione

Parte del cast di ACAB - La serie

Questa scelta, di conseguenza, porta a una serie di sottotrame che si allineano senza problemi alcuni al plot principale anzi, nell’intersecarsi riescono a giungere alla conclusione senza punti in sospeso se non quello del finale, volutamente aperto, in cui il conto da pagare, citando le parole di Mazinga, si (ri)presenta così come successo tredici anni prima nel film, in un cliffangher che chiude questa prima stagione e apre le porte, quasi sicuramente, a un prosieguo.

Decisamente ben al di sopra delle aspettative, ACAB – La serie è un prodotto di alta caratura che è andato ad arricchire il catalogo di Netflix, una visione sì scomoda ma, ciò nonostante, quasi doverosa da guardare: non vi è intrattenimento, né mainstream: vi è, solo ed esclusivamente, una disperante realtà.

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