In the Mood for Love: recensione del capolavoro di Wong Kar-wai

Anche a distanza di un quarto di secolo, In the Mood for Love di Wong Kar-wai racconta gli amori impossibili con tutta la raffinatezza che si confà a un vero classico del cinema.
Quando nel 1990 uscì nelle sale Days of Being Wild di Wong Kar-wai, l’enigmatico cammeo finale dell’attore Tony Leung (nei panni di un elegante donnaiolo) alluse a risvolti che si sarebbero approfonditi solo dieci anni dopo. In the Mood for Love, secondo capitolo di un’ideale trilogia sul sentimento amoroso iniziata proprio con Days of Being Wild e conclusa con 2046, cesella in un solo film tutta l’ossessione del regista hongkonghese per le anime inquiete e bisognose d’amore nei febbricitanti contesti urbani dell’ex colonia britannica.
Lasciatosi alle spalle l’arsura metafisica e la violenza subliminale del wuxia capolavoro Ashes of Time, le immagini allucinate e sognanti di Hong Kong Express, le pulsazioni ritmiche in stile Massive Attack di Angeli perduti, Wong apre al nuovo millennio rifugiandosi nella sensualità vintage di una Hong Kong Anni Sessanta. Ambientato principalmente in un condominio popolare, il film racconta la storia di Chow (Tony Leung) e della signora Chan (Maggie Cheung), due vicini di casa che, scoperta la relazione clandestina tra i rispettivi coniugi, finiscono con l’avvicinarsi l’un l’altra. Pranzi, riflessioni sommesse e litigi simulati vengono scanditi dal tempo condiviso e ingannatore.
In the Mood for Love, o l’infinita classe del melodramma
Data la sua nota abitudine a lavorare senza sceneggiatura, Wong mette in piedi una ballata dell’amore platonico e trattenuto, dal ritmo dilatato, che scivola tra vuoti di memoria, colori acidi e intersezioni delle inquadrature. Assecondando la grazia del Yumeji’s Theme di Shigeru Umebayashi, la mood amorosa del titolo si consuma in interni dal meraviglioso decor anni Sessanta e tra le geometrie architettoniche di templi cambogiani (unica concessione a spettacolari riprese in esterna), che Wong esalta con leggiadre carrellate.
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Wong e il direttore della fotografia Christopher Doyle (con contributi addizionali di Mark Lee, assiduo collaboratore di Hou Hsiao-hsien) riprendono spesso la coppia in ralenti per incapsularne la passione impossibile da consumare, mentre i frammenti di memoria condivisa vengono via via inghiottiti da improvvise dissolvenze in nero che riducono il film all’essenza. Ciò porta lo spettatore a intravedere gli sviluppi di una potenziale infedeltà destinata alla rassegnazione.
Valorizzati da abiti d’epoca davvero meravigliosi, Maggie Cheung e Tony Leung sprigionano chimica e tensione erotica palpabilissime, facendoci continuamente sperare nel lieto fine per la loro relazione.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.