Oz Perkins: tutti i film del regista in attesa di vedere The Monkey

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Oz Perkins: tutti i film del regista in attesa di vedere The Monkey

Eclettico e capace di generare e muoversi in immaginari totalmente originali, nell’ultimo decennio il regista Oz Perkins si è ritagliato il suo spazio nell’alveo degli autori horror di punta. In attesa di rivederlo sul grande schermo con The Monkey, adattamento dell’omonimo racconto di Stephen King edito nella raccolta Scheletri, in uscita negli States il 21 febbraio e il 20 marzo in Italia, ri(scopriamo) insieme tutte le sue opere antecedenti.

February – L’innocenza del male (2015)

Kiernan Shipka in February - L'innocenza del male

Per una serie di vicissitudini, Katherine e Rose sono costrette a trascorrere le vacanze invernali insieme alle signore Prescott e Drake nel collegio cattolico in cui studiano. Rispetto a Rose, che di proposito ha fatto in modo di non tornare a casa, Katherine accusa il colpo, non spiegandosi il perché dell'”abbandono” da parte della sua famiglia. Lentamente, la ragazza inizia ad avvertire una presenza intorno a lei, che la sospinge a comportarsi in maniera del tutto inusuale.

Opera prima di Oz Perkins dalla travagliata storia per quanto concerne il titolo (dapprima doveva essere distribuito come February ma, successivamente, ha raggiunto le sale cinematografiche come The Blackcoat’s Daughter), è uno di quei casi in cui l’adattamento italiano, ossia February – L’innocenza del male, è perfettamente funzionale al contenuto. Titolo e sottotitolo, infatti, hanno la duplice valenza di contestualizzare la narrazione delle vicende in un preciso lasso temporale (l’ultima settimana del mese di febbraio) nonché enfatizzare, appunto, “l’innocenza” del male e la sua fascinazione che permea l’horror perkinsiano.

Dai colori desaturati e spenti, forte di atmosfere algide e cupe corroborate, ancor di più, dalle ambientazioni invernali pervase dalla neve, a distanza di dieci anni dall’uscita February rimane un prodotto decisamente disturbante e fuorviante. Sì, perché nell’espletare il raccordo narrativo mediante differenti punti di vista, Perkins aggiunge una doppia timeline d’azione: tra passato e presente, il regista mette in scena il lento ma altrettanto rapido declino della protagonista (interpretata da una perfetta Kiernan Shipka e da un’altrettanta brava Emma Roberts), vittima di se stessa e, forse, di suggestioni dettate dal peso della solitudine, della perdita e dell’isolamento che deflagrano per via della “presenza” occulta di qualcosa o qualcuno che va ben oltre le possibilità di raziocinio.

Con evidenti rimandi a uno dei capisaldi del cinema horror, ovvero L’esorcista del compianto William Friedkin, February – L’innocenza del male è un esordio di genere che non si basa sull’economia del jumpscare così come sulla violenza gratuita, nonostante quest’ultima si manifesti in maniera brutale e cruda quando meno la si aspetta, bensì sul creare angoscia suggerendo e a volte mostrando ciò che non si vorrebbe vedere.

Sono la bella creatura che vive in questa casa (2016)

Ruth Wilson in Sono la bella creatura che vive in questa casa

Assunta per prendersi cura di Iris Blum, rinomata autrice di romanzi horror affetta da demenza senile, l’infermiera Lily Saylor si trasferisce a tempo pieno nella casa dell’anziana donna, vivendo lì. Fin dall’inizio, Lily avverte una strana atmosfera e già durante la prima notte di permanenza, qualcosa di inspiegabile si verifica. Incapace di dare una spiegazione, l’infermiera inizia ad adattarsi alla nuova vita ma, con il trascorrere dei mesi, si capacita che tra quelle mura si annida qualcosa.

Seconda prova alla regia per Perkins, Sono la bella creatura che vive in questa casa è una ghost story non convenzionale, un anti horror che si discosta dai canoni del genere. Niente sangue, niente economia del jumpscare: a prevalere è l’inquietudine scaturita dai luoghi chiusi, perimetri claustrofobici e atarassici verso l’esterno, che si ergono a sorta di limbo in cui la solitudine logora la psiche dei viventi e, contemporaneamente, dissolve il ricordo dei defunti rendendoli, così, “fantasmi” dei loro stessi spettri.

Pregno di rimandi alla letteratura di genere e alle opere di Shirley Jackson, è il più kinghiano dei film di Perkins, considerando il plot per certi versì familiare (la scrittrice costretta a letto, l’infermiera che deve prendersene cura, quasi a essere una sorta di Misery edulcorato e con tanto di licenze poetiche), Sono la bella creatura che vive in questa casa condivide con il precedente February l’angosciante e cupa atmosfera di isolamento in cui, serpentina, si muove l’attesa di un’epifania.

Sui generis e dal ritmo piuttosto lento, l’opera numero due del regista è un piccolo gioiello cinematografico su paranormale e dintorni ma, ciò nonostante, potrebbe piacere e non piacere proprio per via della sua natura off rispetto al resto di molta produzione filmica orrorifica a esso coeva.

Gretel e Hansel (2020)

Gretel e Hansel

Sorella e fratello, Gretel e Hansel sono orfani di padre e, pertanto, la madre li manda in cerca di lavoro per il sostentamento familiare. Ricevuta l’offerta di domestica, Gretel si trova costretta a rifiutarla nel momento in cui, il futuro padrone, le chiede se è vergine. Tornati a casa senza buone notizie la genitrice, ormai psicologicamente instabile, aggredisce entrambi con un’ascia, costringendoli alla fuga. Dapprima trovano riparo in una abitazione diroccata dove, nottetempo, vengono assaltati da un orribile uomo e salvati da un gentile cacciatore che offre loro cibo e un letto dove dormire. Ricevute dal cacciatore delle preziose indicazioni su dove trovare lavoro, Gretel e Hansel si rimettono in viaggio, tuttavia perdendosi nei boschi. Qui, un insolito profumo di torta li guida verso una sperduta casa in cui vive Holda, donna misteriosa che invita i due a entrare.

Oz Perkins reinterpreta l’omonimo racconto dei fratelli Grimm, virando a tutta forza verso i lidi del folk horror. Ricco di simbolismo e costruito come un concatenamento di tableau vivant, Gretel e Hansel è una squisita fiaba dark con tutte le licenze poetiche del caso, in cui l’inquietudine strisciante si palesa mediante un approccio visivo più suggerito che mostrato, tuttavia senza far venir meno squarci tanto onirici e surreali quanto ambientazioni cupe eppur realistiche, che richiamano alla mente quelle del The Witch di Robert Eggers.

Impeccabile dal punto di vista scenotecnico in cui regia, fotografia e luci formano una triade di notevole potenza visiva, Gretel e Hansel è una mirabilia per gli occhi, un titolo capace di mettersi in gioco con fermo coraggio, riscrivendo le coordinate del materiale di partenza cosicché da poter esplorare lidi inediti. Miscelando come un alchimista l’amalgama di ingredienti presi da differenti generi ciò nonostante accomunati da spazi liminari, Perkins fa del suo terzo lungometraggio la prova decisiva del talento naturale che possiede, senza tuttavia gongolare minimamente.

Se i suoi precedenti lavori si basano principalmente sulla suggestione e sull’horror psicologico, con Gretel e Hansel il regista dimostra di saper maneggiare anche elementi più marcatamente soprannaturali (come in parte fatto con Sono la bella creatura che vive in questa casa), senza però mai scadere nel banale o nel già visto. La sua versione della fiaba dei Grimm è un’opera matura che esplora temi profondi come l’emancipazione femminile e il potere, elevandosi ben oltre il semplice intrattenimento di genere.

Longlegs (2024)

Maika Monroe in Longlegs

Lee Harker, un’ambiziosa agente dell’FBI, viene assegnata a un caso intricato che coinvolge una serie di omicidi ritualistici. Mentre si addentra nell’indagine, scopre collegamenti inquietanti con un misterioso culto e una figura soprannaturale. La ricerca della verità la porterà a confrontarsi non solo con l’orrore del presente, ma anche con i demoni del suo passato.

Per il suo quarto lungometraggio, vero e proprio fenomeno della scorsa stagione cinematografica, Perkins si spinge oltre i confini del cinema horror convenzionale, fondendo elementi del thriller procedurale con il soprannaturale. Forte della presenza di un irriconoscibile Nicolas Cage nel ruolo del serial killer Longlegs e di Maika Monroe nei panni di Lee Harker, Longlegs rappresenta forse il suo lavoro più ambizioso e stratificato. La fotografia livida e spettrale, marchio di fabbrica del regista, si sposa perfettamente con una narrazione che intreccia più linee temporali, creando un mosaico di tensione crescente e inquietudine viscerale.

L’aspetto più notevole del film è come il regista riesca a mantenere il suo stile distintivo pur lavorando con un budget più sostanzioso e star di calibro hollywoodiano. La sua capacità di creare atmosfere oppressive e disturbanti rimane intatta, mentre la sceneggiatura esplora tematiche complesse come il trauma intergenerazionale e la natura ciclica del male. A differenza dei suoi lavori precedenti, in Longlegs Perkins si confronta con una struttura narrativa più complessa, dove l’indagine dell’FBI funge da pretesto per esplorare territori ancora più oscuri e metafisici. Il regista gioca sapientemente con le convenzioni del police procedural per sovvertirle, creando un’opera ibrida dove il confine tra realtà e incubo si fa sempre più labile.

Nicolas Cage, in particolare, permette a Perkins di spingersi verso territori ancora inesplorati: il suo Longlegs è una figura enigmatica che oscilla tra il terreno e il soprannaturale, incarnando quella duplicità tematica che attraversa tutto il film. Sul piano visivo, Longlegs rappresenta forse il punto più alto della cinematografia di Perkins. Lavorando con il direttore della fotografia Andrés Arochi, il regista costruisce un mondo fatto di ombre allungate e spazi claustrofobici, dove anche le location più ordinarie – uffici dell’FBI, archivi, appartamenti – assumono connotazioni sinistre e perturbanti. La palette cromatica, che gioca sui toni del blu e del grigio, contribuisce a creare quel senso di disagio e straniamento che è ormai marchio distintivo del suo cinema.

Longlegs si configura così come una sorta di summa del percorso artistico di Perkins: un’opera che mantiene intatte le sue ossessioni tematiche – l’isolamento, il trauma, la natura sfuggente del male – ma le declina attraverso una forma più ambiziosa e stratificata, dimostrando come sia ormai in grado di muoversi con sicurezza anche all’interno di produzioni più mainstream senza sacrificare la propria visione autoriale.

L’evoluzione stilistica di un regista promettente

Il regista Oz Perkins

Nell’arco di un decennio, Oz Perkins ha dimostrato una notevole evoluzione come regista, pur mantenendo intatta la sua identità autoriale. Dal psychological horror intimista di February, passando per la ghost story non convenzionale di Sono la bella creatura che vive in questa casa, fino alla rivisitazione folk horror di Gretel e Hansel e al thriller soprannaturale e demoniaco Longlegs, il suo percorso artistico rivela una costante ricerca di nuove forme espressive all’interno del genere horror.

Ciò che rende unica la filmografia di tale regista è la sua capacità di combinare elementi apparentemente contrastanti: la lentezza contemplativa con momenti di violenza improvvisa, l’horror psicologico con quello soprannaturale, la narrazione frammentata con una coerenza tematica di fondo. Il suo stile visivo, caratterizzato da una fotografia desaturata e composizioni studiate, si è affinato film dopo film, diventando sempre più sofisticato senza perdere la sua essenza inquietante.

In attesa di The Monkey, possiamo già affermare che Perkins si è guadagnato un posto di rilievo tra i registi horror contemporanei più interessanti, distinguendosi per un approccio al genere che privilegia l’atmosfera e la profondità psicologica rispetto agli shock gratuiti, senza mai rinunciare alla propria visione artistica.

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